Si moltiplicano i casi di corruzione e comunque (cosa non meno grave in questo momento)  di sprechi enormi di denaro pubblico nelle amministrazioni e nei Consigli regionali. L’indignazione dei cittadini si spiega abbondantemente, visti i grandi sacrifici che debbono sopportare. Molto meno lo è la reazione di quei politici e giornalisti che saltano sul carro di chi protesta per denunciare l’istituzione regionale in quanto tale e perfino reclamare l’abolizione delle Regioni.
Il nostro è sì  “un paese troppo lungo”, come dice Giorgio Ruffolo[1], ma anche dalla memoria troppo corta. Entrato in vigore il nuovo Titolo V, tutti si lasciarono alle spalle le storture del vecchio testo e si avventarono su quelle del nuovo come se nascesse dal nulla.  Il fatto è che, come tutte le riforme costituzionali,  la revisione del Titolo V richiedeva il maggiore consenso politico e sociale possibile, dunque un metodo concertato, una grande determinazione e una buona presentazione. Invece, una volta compiuta la scelta di andare avanti con l’approvazione del testo alla fine della XII Legislatura, la maggioranza dell’epoca non provò nemmeno a spiegare ai cittadini, che oltretutto furono chiamati al referendum, cosa voleva fare con una riforma che (qualunque giudizio se ne voglia dare) rimane la più estesa e importante dal 1948. Delegittimata prima di nascere, la riforma risultò figlia di nessuno. Non era il viatico migliore per attuarla, e infatti l’attuazione rivelò fortissimi squilibri.
Oggi un editorialista-costituzionalista scrive addirittura che col nuovo Titolo V “cominciano tutti i nostri guai. Perché dal troppo poco passiamo al troppo e basta…E allora scriviamo nella Costituzione che la competenza legislativa generale spetta alle Regioni, dunque il Parlamento può esercitarla soltanto in casi eccezionali. Aggiungiamo, a sprezzo del ridicolo, che lo Stato ha la stessa dignità del Comune di Roccadisotto (articolo 114)…. E, in conclusione, trasformiamo le Regioni in soggetti politici, ben più potenti dello Stato”[2]. In realtà  l’art. 114 Cost. si  limita a indicare gli enti di cui la Repubblica è costituita, quali sue componenti necessarie. Nulla di meno e nulla di più: per comprendere le posizioni di ciascun ente nel sistema e le reciproche relazioni, bisogna semplicemente avere la pazienza di leggere il testo che segue. Come si fa poi a dire che il Parlamento può legiferare solo in casi eccezionali dopo che la Corte costituzionale ha scelto un indirizzo così diverso da far parlare di “ricentralizzazione del regionalismo italiano”[3]? Misteri dell’eccitazione mediatica.
Il contrasto con la realtà giuridica del nostro regionalismo non potrebbe insomma essere più forte. Questo non vuol dire che il Titolo V sia privo di difetti anche gravi. Vuol dire che alimentare l’emotività antiregionalistica non aiuta a vederli, finisce di fare di tutt’erba un fascio. Per restare alla corruzione, essa ha potuto prosperare non solo per la scomparsa dei partiti nazionali, che ha fatto crescere a livello locale un personale politico irresponsabile e famelico, ma anche per la eliminazione dei controlli sulle amministrazioni regionali, soprattutto in ordine alla spesa. Il vecchio sistema era non a torto accusato di produrre controlli solo formali, ma la scelta di abolirlo senza sostituirlo con uno più efficace in nome dell’autonomia è stata fatale. A quel punto non rimaneva che il giudice penale, proprio come era accaduto venti anni prima.

 

 

 



[1] G.Ruffolo, Un paese troppo lungo. L’unità nazionale in pericolo, Torino, Einaudi, 2009.
[2]
M.Ainis, I pachidermi delle Regioni, in Corriere della sera, 22 settembre 2012, 1.
[3]
M.Belletti, Percorsi di ricentralizzazione del regionalismo italiano nella giurisprudenza costituzionale, Aracne, Roma, 2012.