Politica come “bene comune”
Abbiamo provato nel corso del ciclo di conferenze promosso a Milano all’Umanitaria da Fondazione Socialismo, FEPS e da questa rivista a considerare lo spazio che viene riservato nel pensiero corrente alla politica come “bene comune“. Dopo aver visto tanta identificazione della politica nei “privilegi di Stato”, spacciati per “interessi generali” oppure nel sistema familistico-clientelare in cui la nozione “bene comune” fa ridere. E abbiamo altresì creato le condizioni per un approccio non conformista all’idea che il bene comune non sia criterio da estendersi a tutto, come una nuova ideologia.
E tuttavia l’idea della politica come tessuto relazionale tra istituzioni e società, la rende di tutti e non proprietà dello “Stato” o della “Società”. Questo approccio permette di collocare meglio lo sviluppo delle riflessioni che riguardano le esperienze di discontinuità introdotte nel corso del 2011 a Milano (governo della città) e a Roma (governo del paese) argomento a cui si sono dedicate analisi di “cantieri della terza Repubblica”.
La nozione di bene comune, per la politica, per essere credibile dovrebbe far riconoscere nei contesti in esame un sentimento partecipativo nuovo. Non basta il nostro incessante e qualche volta un po’ cinico chiacchiericcio di vecchi addetti ai lavori che criticano tutto e tutti. Non basta avere sussulti attrattivi per nuovi “rottamatori” che ci vendichino, una sorta di Zorro che manda a casa i politici sempreverdi che hanno resistito alle bufere. Dovremmo avere seri riscontri attorno a due aspetti: che le discontinuità sono state generate sull’onda di un diffuso sentimento civile e che quel sentimento va ricomponendosi in forma di movimento.
Un sentimento civile che deve essere condiviso soprattutto dalle nuove generazioni e dalle donne, deve esprimersi con nuovi linguaggi, deve far riconoscere che i suoi portatori stanno mettendo davvero fine non in forma gattopardesca a cicli esauriti della politica corrente.
Il sentimento che si fa movimento comporta anche il fatto che esso sia visibilmente indossato da fenomeni partecipativi.
La buonapolitica
Con il libro “La buonapolitica” (giugno 2012) ho proposto di ripensare ad un anno di eventi e di discussioni credendo di individuare questo sentimento fattosi movimento in due precise realtà che si sono costituite come “comunità” : l’ agorà fisica delle piazze di Milano attorno all’elezione di Giuliano Pisapia a sindaco; l’ agorà virtuale che ha accompagnato con frenesia nella rete la caduta de governo Berlusconi dando all’Italia un governo di ricostituzione della reputazione del paese, con un profilo “tecnico” ma anche di unità nazionale. “Buonapolitica” in quel titolo e’ scritto in una parola sola, presupponendo che non ci sia altro aggettivo possibile che “buona” per quel sostantivo. Ma anche per sottolineare con evidente retorica il peso che ha avuto nelle nostre vicende la “malapolitica” intesa come sradicamento della priorità’ degli interessi generali, costruzione e blindaggio della casta, ruolo della malavita organizzata negli affari pubblici.
Ho sottotitolato quel libro “Cantiere Milano/Italia“. In verità a distanza di qualche mese posso dire che questo riconoscimento non si e’ espresso in Italia in modo esplicito nel corso della transizione. Una volta che Milano ha assolto il suo compito di dimezzare le preferenze a Berlusconi, far crollare l’ alleanza della coalizione di CD, mandare a casa il CD a Milano dopo 17 anni, dimostrare la vacuità di proposta della giunta Moratti, i riflettori sono stati tolti. Vero e’ che Milano si e’ un po’ chiusa nel suo prioritario problema di fare “buona amministrazione” senza disporre ancora di un gruppo dirigente rodato. Ma vero anche che agli italiani non e’ parso vero di non dover prendere troppo a lungo altre lezioni dai milanesi, andando dietro intanto ai vari modelli di “transizione” seri o finti che fossero, in un clima di ripresa generalizzata del localismo.
Il punto di caratterizzazione che avrebbe dovuto impegnare una discussione più diffusa, in forma di esperienza estendibile, come avevo cercato di sottolineare con quel libro, come punto centrale in quel sottotitolo, non era ne’ moralistico ne’ declamatorio. Riguardava una proposta politica strutturale. Quella di ipotizzare un patto di governance tra partiti e società civile in una seria e non derogabile forma di mezzadria. Pur consapevole che in quella espressione “società civile” ci stanno cose ottime e cose inquietanti, la formula – sia pure applicata in modo diverso – ha dato tempo alla politica di tentare una autoriforma dei soggetti organizzati allo scopo primario di salvare nell’opinione della gente l’idea stessa di democrazia.
La mappa esangue del laboratorio politico italiano
E’ legittimo che altri contesti, altri ambiti del paese, si percepiscano come “cantieri della transizione”. Bisogna vedere se si tratta davvero di “cantieri” concentrati sul rinnovamento della politica per salvaguardare, con la maggiore aderenza possibile allo spirito costituzionale, il modello di democrazia, pur nelle tante riforme che una seria transizione ancora richiede.
Ora quali sono i “cantieri” che si sono manifestati o stati indicati in Italia in questo periodo? Dove e’ la ripresa di un serio dibattito sulle riforme necessarie per tenere in vita ancora le nostre istituzioni della democrazia rappresentativa? Chi ha aperto una riflessione popolare per rimettere in moto il sentimento europeo tra gli italiani?
Abbiamo visto piuttosto evaporare molte speranze e rinunciare ad alcuni aspetti di un pluralismo di contributi. La tenuta a lungo di reputazione della classe dirigente territoriale – nel quadro di una tendenza generale europea, ha visto negli ultimi tempi sparire dalla mappa della buona reputazione pressoché tutta la classe dirigente regionale italiana. Da Eurobarometro (reso pubblico il 17 ottobre a Bruxelles) le Regioni italiane sono azzerate nella reputazione, tutte salvo la Toscana e il Trentino. Storiche regioni che avevano organizzato la fiducia, dall’Emilia-Romagna all’intera fascia del nord sono nella mappa della ricerca comunitaria a fiducia zero. Il Mezzogiorno e’ diventato – con qualche oasi – un intero arcipelago di cacicchi.
Si era poi posto un tema di riarticolazione delle aree della rappresentanza per superare le rigidità del bipolarismo. Si è attribuito valore alla creazione del Centro, ma negli ultimi due anni i soggetti che lo componevano si sono marginalizzati nei sondaggi sulle opzioni degli italiani, fino a quel carattere esile che tutti vediamo oggi. E ancora: la vecchia sinistra ideologica italiana (quella ancora dichiaratamente comunista), avrebbe potuto seguire le vie del rinnovamento post-marxista di realtà che nel mondo hanno lavorato e studiato per la loro modernizzazione. Da noi questa area non ha più alcuna teoria e alcuno strumento per proporre culture di governo. La Lega – che sfidava la classe politica italiana dicendo male alcune cose vere – si è messa nelle condizioni di non poter dire più’ nulla di credibile perché il suo gruppo dirigente è rientrato miseramente nella concezione proprietaria della politica con cui non si fa nessuna transizione al nuovo. Hanno rimosso un leader, lasciando segni che rendono il recupero tutto da dimostrare. E infine la fotografia di Todi – quella dei cattolici in politica – ha dimostrato fin qui che le crisalidi non sempre diventano farfalle.
Milano/Italia/Lombardia
Vi sono argomenti per tentare in questo contesto una ri-convalidazione dello scenario Milano/Italia, che tiene conto di alcune cose: Milano e’ portale internazionale degli interessi del paese; Milano+Lombardia è un quarto del pil italiano; Milano è l’ambito considerato dagli economisti come il punto in cui organizzare credibilmente l’ uscita dalla crisi; Milano è Expo (unico tema planetario a disposizione per dire la nostra al mondo nel breve e medio periodo, oltre agli statements di Mario Monti). In questo quadro che si apre (come si indicava con certezza di evoluzione della crisi, che altri non ammettevano, anche in quel libro) lo scenario Lombardia come nuova sperimentazione del rapporto tra trasformazione e partecipazione.
Da una parte vanno risolti vecchi conflitti: tra culture global e culture local agli antipodi; tra ruolo geopolitico internazionale e affidamento di quel ruolo a una classe dirigente che, salvo alcune eccezioni, dimostra di franare su miserie; tra bisogno della legalità come canone di sviluppo importante per le imprese e radicamento delle mafie nei circuiti degli affari pubblici.
Dall’altra parte si deve dimostrare – ora in pochissimo tempo – se la spinta di quel sentimento partecipativo nuovo aderisce a un territorio complesso, plurale e genericamente conservatore.
Ora “La Buonapolitica” aveva lo scopo di accompagnare la riorganizzazione della speranza. Questo comportava qualche ottimismo. Ovvero indicando punti qualificanti per riconoscere nelle politiche pubbliche elementi virtuosi. Forse c’e qualcosa da pescare, tra quei punti e da adattare alla dimensione regionale. Ma soprattutto c’e da discutere e capire se l’ipotesi della mezzadria tra partiti e società può trovare un campo robusto applicativo. Cioè se si apre un cantiere elettorale che qui sposta l’obiettivo della riforma della politica laddove non siamo certi che lo sposteranno le elezioni politiche nazionali. Insomma un nuovo modo di concepire le rappresentanza nell’equilibrio necessario – ma finora non praticato nelle istituzioni italiane – tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa.
Rispetto al tema di fondo della restrizione dello spazio di gioco dei partiti – sempre nel quadro della creazione di condizione di una loro adeguata rigenerazione – La Lombardia ha un carattere assai favorevole. Essa e’ fortemente “società“. Società organizzata, cooperativa, solidale, associativa, del volontariato ma anche dei soggetti evoluti della rappresentanza. Da cui prendere metodo, proposte, persone. Mentre i partiti debbono dimostrare se – nell’arco di una legislatura-laboratorio – riescono a riproporsi in sintonia con quelle vitalità. Infatti, stando alla situazione oggi percepita dall’opinione pubblica e registrata in modo piuttosto uniforme dalla demoscopia: il Centrodestra ha mescolato malaffare e integralismo; il Centrosinistra esce dal progetto di trasferire il “metodo Sesto” da Sesto alla Lombardia (ricordandoci che Penati per avere credibilità su questo progetto era stato chiamato da Bersani a capo della sua segreteria) e non è riuscito – pur facendo molti atti di dissenso e di protesta – a fare, visto il quadro della deriva, una “straordinaria” azione di coraggio e di “purificazione” credibile al di fuori degli addetti ai lavori; nessuno – a destra e a sinistra – ha preparato sul serio finora dossier del cambiamento (politiche pubbliche, garanzie democratiche per i cittadini, formazione dirigenti) all’altezza dei problemi che una politica per il sistema regionale prossimo venturo pone in Italia e in Europa. L’esito combinato di questi elementi porta l’opinione pubblica a mantenere oscillante tra i 3 e i 4 punti su cento la reputazione di tutti i partiti, nessuno escluso
Riorganizzare un’esperienza partecipativa che restituisca speranze alla gente
Di fronte alla certezza di caratteri violenti e parolai della comunicazione politica che va per la maggiore, dovrebbe essere possibile utilizzare il setting elettorale per introdurre pregiudiziali di metodo e l’avvio di un metodo costruttivo per il dopo, in cui almeno si mettano in evidenza alcuni elementi : obiettivi misurabili dal cittadino-elettore per le politiche pubbliche; riflessioni serie per accompagnare la riabilitazione della reputazione dell’istituto regionale; ipotesi di governance attorno all’equilibrio partiti-società e all’equilibrio uomini-donne; progetto per il ruolo di controllo e valutazione dell’assemblea legislativa; ridimensionamento della spesa per la politica, assorbendo ogni costo dei gruppi all’interno delle spese di bilancio sottoposte a controllo di merito e di gestione. Riprendere il modello partecipativo Milano per organizzare un’esperienza che restituisca speranze alla gente è la proposta di metodo che conti su un comitato di indipendenti relazionati con i soggetti politici del centro-sinistra per pilotare rapidamente programma ed eventi quadro.
Una campagna elettorale fondata su questa cornice deve dimostrare che esiste quel sentimento che si fa movimento. Nella quale è indispensabile che l’organizzazione e la comunicazione di questa campagna siano all’altezza di questi elementi innovativi. Alla luce delle cose fin qui brevemente dette l’approccio elettorale, fin dai primi atti, può seguire punti di riferimento assai diversi. Il modo con cui sarà maturata una riflessione aggiornata sulla democrazia e sull’evoluzione del principio di statualità tra dimensione locale, regionale, nazionale ed europea, farà prendere una strada o l’altra.
Si punterà sul carattere di denuncia di una lista civica smarcata rigorosamente dai partiti se si farà prevalere l’onda dell’indignazione rimandando i pur necessari approfondimenti programmatici.
Si punterà invece – e diversamente – sul modello della mezzadria tra partiti e soggetti sociali se si cercherà almeno di mettere a punto un’ipotesi di progetto di sviluppo fondato sulla rete delle autonomie locali che condizionano il centralismo regionale dimostrando capacità di dialogo con l’economia globale.
Si punterà alla responsabilità di partiti in larga coalizione se disposti a sostenere regole forti di trasparenza, legalità e democrazia interna e se interessati a salvaguardare un legame importante tra quadro politico territoriale, nazionale ed europeo.
A Milano vi sono le condizioni per tentare una scelta. In ogni insediamento di comunità dell’intera Lombardia ci sono tradizioni e sensibilità civili per accompagnare, modificare o smentire questa proposta.
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