Un nodo irrisolto del Pd è quello dell´identità. Nato come somma di due componenti dai valori diversi, i cattolici democratici ed i social comunisti, non si è mai fatto lo sforzo di definire l´identità del nuovo partito. Come si vede dal panorama politico europeo e mondiale, dovunque si contrastano due blocchi, uno conservatore e liberista ed uno progressista di tipo social democratico, che accetta il libero mercato nel quadro di uno Stato forte che garantisce diritti universali ed equa distribuzione della ricchezza.
In Europa il documento di identità più noto di un partito democratico di sinistra è quello della tedesca Spd, Bad Godesberg 1959, che comincia così: “Il socialismo democratico, che in Europa affonda le sue radici nell´etica cristiana e nell´umanesimo, non ha la pretesa di annunciare verità assolute, non per indifferenza riguardo alle diverse concezioni della vita o verità religiose, bensì per rispetto delle scelte dell´individuo in materia di fede, scelte sul cui contenuto non devono arrogarsi il diritto di decidere né un partito politico né lo Stato. L´Spd è un partito composto da uomini provenienti da diversi indirizzi religiosi ed ideologici, che condividono precisi obiettivi, libertà, giustizia, solidarietà”.
E più avanti: “Ordinamento economico e sociale. La politica socialdemocratica in campo economico persegue il raggiungimento di un benessere crescente, una equa partecipazione di tutti al prodotto nazionale, una vita nella libertà senza inique dipendenze e sfruttamento. La politica economica, sulla base di una moneta stabile, deve assicurare la piena occupazione, accrescere la produttività ed aumentare il benessere collettivo. La libera scelta dei consumatori e del posto di lavoro, così come la libera concorrenza e la libera iniziativa, sono fondamento essenziale della politica economica socialdemocratica.
Nel caso in cui taluni mercati siano monopoli naturali o dominati da singoli o da gruppi, si rendono necessarie misure per ristabilire la libertà economica: concorrenza nella misura del possibile, pianificazione nella misura del necessario. La proprietà privata dei mezzi di produzione deve essere difesa ed incoraggiata nella misura in cui non intralci lo sviluppo di un equilibrato ordinamento sociale. La concorrenza mediante imprese pubbliche è un mezzo da usare per prevenire un dominio privato di importanti settori del mercato o laddove, per motivi naturali o tecnici, prestazioni indispensabili alla comunità possono essere fornite in modo razionale ed economico solo con mezzi pubblici. Poiché l´economia di mercato non assicura di per sé una equa ripartizione di redditi e patrimoni, sarà necessaria una politica nazionale dei redditi e del patrimonio. Ciò presuppone due condizioni, la crescita del prodotto nazionale ed una sua equa ripartizione.
Il sistema di sicurezza sociale deve essere commisurato alla dignità dell´uomo, consapevole della propria responsabilità. Ogni cittadino ha diritto a percepire dallo Stato un minimo di pensione per vecchiaia, disabilità al lavoro, morte di colui che gli assicura il sostentamento. Tutte le prestazioni sociali in danaro dovranno essere adeguate agli aumenti dei redditi da lavoro.
Poiché il singolo non può difendersi da tutti i rischi inerenti la salute, un sistema pubblico di protezione sanitaria è indispensabile, garantendo nel contempo la libertà professionale dei medici. La durata del lavoro, a reddito invariato, deve essere gradualmente ridotta nella misura assicurata dal progresso tecnico e dalle libere scelte contrattuali. Ciascuno ha diritto ad una abitazione decorosa, vietando anche le speculazioni sulle aree e sottoponendo a prelievo fiscale i profitti derivanti dalla vendita dei terreni. La parità dei diritti della donna deve essere attuata realmente in senso giuridico, economico e sociale. Stato e società devono proteggere, favorire e rafforzare la famiglia e la gioventù”.
La conclusione del documento verte sulla nuova concezione di classe, molto più larga di quella originaria del socialismo marxista: “Il movimento socialista, iniziato come protesta dei lavoratori salariati contro il sistema capitalistico, ha adempiuto ad un compito storico. Nonostante errori e sconfitte il movimento dei lavoratori è riuscito ad ottenere nel XIX e XX secolo, il riconoscimento di molte sue rivendicazioni, tra cui, la giornata lavorativa di 8 ore, la pensione per invalidità e vecchiaia, il diritto di organizzazione sindacale, i diritti di maternità, il divieto del lavoro minorile, le ferie, etc… Questi successi sono pietra miliare di un cammino ricco di sacrifici, soprattutto dei lavoratori salariati, che ha servito la causa della libertà di tutti gli uomini.
Oggi tutte le forze vive scaturite dalla rivoluzione industriale e dal progresso tecnico devono essere messe al servizio della libertà e della giustizia. Da partito della classe lavoratrice il partito socialdemocratico è diventato partito del popolo. Perciò la speranza del mondo è un ordine fondato sui valori del socialismo democratico, che intende creare una società civile nel rispetto della dignità umana, una società libera dalle disuguaglianze, dall´indigenza e dalle paure, da guerre ed oppressioni, in unità di intenti con tutti gli uomini di buona volontà”.
Credo che, ci sia da imparare molto dal documento di Bad Godesberg, naturalmente aggiornandolo a 50 anni dopo, in termini di definizione dell´identità di un moderno partito democratico di sinistra. Tanto più che gli 8 paesi europei più a lungo governati nel dopoguerra da partiti socialdemocratici, i 4 paesi scandinavi più Germania, Olanda, Austria e Francia, sono non solo quelli a più alta eguaglianza sociale (indice di Gini inferiore a 0,3) ma anche quelli a più alto sviluppo.
Articolo pubblicato in www.nicolacacace.it il 16/05/2013
Il compito della sinstra italiana e’ piu’ difficile perche? dovrebbe fare in parallelo una Bad Godesberg e un’Epinay. Un nuovo manifesto non puo’ essere un documento scritto da una commissione di saggi o addirittura da un demiurgo, ma nascere all’interno di un movimento/partito articolato, plurale e partecipato. Al momento non c’e’ e neppure e’ in cantiere. Non per nulla il movimento e’ declinato al participio passato di partire invece che derivare da parte. I “partiti” sono “andati” e per di piu’ non si sa neppure dove.
Per una Bad Godesberg il PD deve fare i conti non solo con la storia del passato, ma anche presente. Solo in tal modo si potrebbe capire che la società italiana, per aspirare alla sintesi di libertà e di giustizia sociale, dovrebbe essere alimentata al suo interno da un’area politica e culturale non solo riformista e socialista, ma soprattutto laica. E’ giunto il momento che la sinistra, per superare l’apnea che sta vivendo ormai da anni, sposi il modello del socialismo riformista ed abbandoni la diaspora e gli atteggiamenti da spocchia.
Per l’assenza del riformismo “socialista”, nella società italiana gli ideali di libertà, democrazia, giustizia sociale, pace e così via stanno dissolvendosi. Ad esempio, la libertà e la giustizia sociale (uguaglianza) non riescono più a ritrovare un bilanciato equilibrio. Le nuove generazioni, non avendo punti di riferimento democraticamente credibili e affidabili, sono, ormai, disorientate. Anche i giovani chiedono, perciò, di mettere da parte le diatribe e, prospettando una società maggiormente libera e più giusta, di assecondare le loro aspettative. E’, oggi, dominante nella cultura politica italiana, un riformismo senza testa e un socialismo senza volto. Esso è un valore che, in Italia, non appartiene più ad alcuna cultura politica, giacché non è di destra né di sinistra, ma è laico-socialista. Il socialismo democratico è, poi, un ideale che non può appartenere ai soggetti in possesso di una forma mentis con inclinazioni totalitarie.
Oggi, ridotta a pezzi l’idea laico-socialista dal bitotalitarismo catto-comunista (il compromesso storico berlingueriano è, ormai, in Italia, da tempo in atto), il riformismo, all’inizio degli anni novanta del secolo appena trascorso, scompare nel nulla. Certo i suppellettili e i soprammobili, che, all’interno dell’ex PSI, hanno sentito parlare di riformismo, si possono annoverare sia a destra sia a sinistra dello schieramento politico italiano. Si possono anche leggere dichiarazioni d’iscrizione al PCI, per me paradossali, come quelle di Piero Fassino, che, nel libro Per Passione, dichiara “in quel settembre del ’68 scelgo il PCI perché sono sempre stato istintivamente alieno da ogni forma di massimalismo, […] mi sono sempre riconosciuto nel riformismo e nel gradualismo”. Io, invece, nell’agosto dello stesso anno uscivo, sbattendo la porta, come segretario di sezione del PCI, perché lo consideravo massimalista e succube di chi, in qualche modo, soffocava con i carrarmati “la primavera di Praga”. Spero, poi, che gli italiani, muniti di memoria a lungo termine, ricordino gli attacchi a testa bassa che il PCI ha sempre rivolto ai socialisti, definendoli in maniera dispregiativa “riformisti”. Non nominiamo, perciò, invano, un’idea, che, in un secolo (1892-1992), ha, lottando contro chi da tempo ha sempre anteposto la libertà alla giustizia sociale (uguaglianza) e contro chi ha privilegiato l’uguaglianza a scapito della libertà, edificato, mattone su mattone, una società più libera e maggiormente equa, oggi, demolita in poco tempo, da una classe politica senza qualità ed arroccata sul potere fine a se stesso.
La sfida alla complessità è, nella società attuale, irta di ostacoli e non è possibile intenderla né governarne gli sviluppi senza richiamarsi e farsi guidare da un riformismo laico-socialista, l’unica prassi politica incardinata simultaneamente sulla libertà e sulla giustizia sociale (uguaglianza). Il riformismo è un’arte difficile e, come tale, non può appartenere a chi per quasi un secolo non è riuscito nemmeno a cogliere la differenza tra democrazia e totalitarismo. La libertà, poi, non può essere considerata un valore come un altro; essa è, anzi, il punto di partenza, per fondare e per condividere tutti gli altri valori. Questi, senza la libertà, non avrebbero consistenza. A che cosa, appunto, servirebbero la pace, l’uguaglianza, la giustizia, la solidarietà e così via, se fossero imposte?
La risposta è immediata. Non sarebbero condivise. La libertà è il presupposto per erigere ogni altro valore. Senza il metodo “riformista”, la libertà sarebbe “prescrittiva” e l’uomo non potrebbe mai acquisire consapevolezza critica dei propri limiti. In Italia, a partire dagli anni novanta del Novecento, per la crisi delle istituzioni democratiche, è diventato difficile intravedere all’orizzonte punti di riferimento. I partiti, accecati dal potere, anziché trasformarsi in motori per la democrazia, si sono convertiti, assumendo condotte antiriformistiche ed illiberali, in strutture chiuse e onnivore. Essi, al contrario, per avvicinare, perciò, di nuovo i giovani all’attività politica, dovrebbero assumere, secondo i principi vitali della democrazia, nuove forme e tollerare che ognuno pensi ed agisca in maniera autonoma. E’, per questa ragione, auspicabile che diventino, da un lato, aperti alle attese della società e, dall’altro, superando, in qualche modo, le attuali strutture, allestite soltanto per ristretti gruppi di potere, si trasformino in organizzazioni di elettori e di cittadini; dovrebbero, dunque, aderire, in modo diffuso, alla morfologia della società e dello Stato. Solo ricorrendo al riformismo, ognuno potrà confrontarsi con le sfide del mondo attuale, e concorrere al rinnovamento sia guidando le trasformazioni sia governando gli sviluppi della società.
Il riformismo è storicamente riconosciuto come un valore che appartiene al mondo laico-socialista; altre forme di riformismo si presentano come un disvalore, perché tendono, pur rievocando le riforme, o a ricondurre la società al passato o ad immetterla in un vortice senza ritorno. Nello schieramento politico del centro-destra italiano il riformismo è un frammento stellare. In quello della sinistra, pur essendo il termine altisonante, si contano, al suo interno, pochissimi riformisti. Domina, perciò, come si diceva, un socialismo senza volto e un riformismo senza testa. Una società, che intende rendere possibile l’equilibrio tra la libertà e la giustizia sociale (uguaglianza), dovrebbe, invece, essere eretta sulla responsabilità ed edificata con il metodo “riformista”. Un riformismo, inteso in tal senso, può offrire, in un processo dinamico, la possibilità di:
1. Far maturare gradualmente la complessità sociale e le diverse soggettività, che operano all’interno della società.
2. Permettere agli uomini di liberarsi dal servilismo, dai condizionamenti, dai dogmi e dalle ideologie, affinché ognuno, dopo aver acquisito un’adeguata consapevolezza, possa confrontarsi, in maniera creativa, con l’intera società.
3. Sapere interpretare, in modo graduale, le trasformazioni della società, per adeguarle alle esigenze e alle aspettative della maggior parte dei cittadini.
4. Riportare a sintesi di programma l’articolazione dei diversi interessi della collettività.
Un riformismo, senza la democrazia e senza avere, come fine, il socialismo, è un’astrazione; anzi, è il presupposto per la costruzione di una società avvolta e asfissiata dal conformismo. Nello stesso tempo, la democrazia e il riformismo, senza il socialismo, sono termini vuoti. Si può, allora, affermare che democrazia, socialismo e riformismo, presi in considerazione isolatamente, sono termini antitetici. Dovrebbero essere, al contrario, considerati voci correlate.
Il metodo “riformista” è, per questo motivo, uno strumento d’importanza vitale nella costruzione di una società democratica e “socialista”. Diversamente il socialismo sarebbe imposto e edificherebbe, svuotandosi di contenuto, società autoritarie o totalitarie. Quei socialisti che, invece, adottano il metodo “riformista” s’incamminano verso mete, che enunciano e che realizzano nella quotidianità. Bisogna precisare che i diversi soggetti, che agiscono all’interno di una società, pur diventando, attraverso il metodo “riformista”, protagonisti del loro futuro, non riusciranno mai ad affermare tutti gli ideali, perché, nella natura umana di chi, in un determinato periodo, detiene il potere e i privilegi, è connaturata l’esigenza di conservare l’uno e l’altro per sé; chi, invece, n’è privo e non gode di alcun vantaggio, né materiale né sociale, sarà costretto a lottare per acquisire diritti e per conquistare status sociali. Storicamente, spesso, i democratici e i liberali di ieri sono, perciò, diventati i conservatori d’oggi; essi non solo hanno rallentato le conquiste, ma hanno anche tentato di ostruire il cammino al moto storico verso la libertà e verso il socialismo delle classi sociali più deboli. Tali processi si sono verificati, in maniera ricorrente, nella storia. Gli ideali della democrazia e del socialismo sono, per tali motivi, fragili e transitori. Essi, in conseguenza di ciò, sono di difficile concretizzazione. E’ più semplice e meno rischioso, a livello individuale, piegare la testa e diventare servili. Comporta meno rischi e minore responsabilità. Il moto storico verso la libertà e verso gli ideali del socialismo è, in ogni modo, inarrestabile e nessun si può ad esso frapporre in maniera definitiva. Fra non molto è, perciò, non solo auspicabile, ma anche concretamente possibile che i socialisti riformisti d’Italia risorgeranno ed i loro avversari di sempre, attraverso una consapevole autocritica, prenderanno coscienza dei loro errori e capiranno l’importanza dell’arte del silenzio e dell’ascolto, per rendere, finalmente, il riformismo “socialista” una forza autonoma e autosufficiente per governare la società italiana.
Il moto storico verso la libertà e verso il socialismo riformista ha, poi, avuto, nella società italiana, un trend non lineare. Anzi, utilizzando la metafora delle “fatiche di Sisifo”, si potrebbe affermare che, in Italia, ogni qualvolta la libertà era sul punto di acquisire traguardi decisivi, per coniugarla con la giustizia sociale (uguaglianza) e con il socialismo “riformista”, si sono puntualmente prodotte condizioni oggettive, affinché essa retrocedesse al punto di partenza.
Il socialismo italiano, ispirandosi ai principi della Seconda Internazionale (1889), si è organizzato in partito, nel 1892, durante il Congresso di Genova, nel quale sono confluiti alcuni seguaci delle esperienze politiche di Mazzini e di Garibaldi ed alcuni esponenti del liberalismo “riformista” e del federalismo di Carlo Cattaneo.
L’ossatura e la struttura del partito “socialista” italiano, però, sono, nel complesso, costituite dalle componenti di tre correnti:
1. La Lega “socialista” milanese, diretta da Filippo Turati.
2. Il Gruppo anarchico, retto da Andrea Costa.
3. La componente degli intellettuali marxisti, guidata da Antonio Labriola.
I socialisti si sono, in seguito, suddivisi in riformisti e in massimalisti; all’interno del massimalismo si è, poi, organizzata, per la conquista violenta del potere, la corrente rivoluzionaria, che, al Congresso di Livorno, nel 1921, aderendo alle direttive del leninismo e della Terza Internazionale, si è scissa ed ha fondato il partito comunista d’Italia; così, i lavoratori, dopo due anni di lotta e di occupazione delle fabbriche (1919-1920) per l’affermazione della libertà e delle conquiste sociali, sono stati costretti a dividersi e, disorientati, ad osservare passivamente l’avvento del fascismo al potere. Ciò è avvenuto, nonostante un lungimirante ed, oggi, attualissimo discorso del padre-fondatore del socialismo riformista italiano, Turati, al Congresso di Livorno, nel 1921.
“La violenza è il contrapposto della forza, la violenza è anche paura, la poca fede nell’idea, la paura delle idee altrui, il rinnegamento della propria idea. E rimane tale anche se trionfa per un’ora, seminando dietro di sé la reazione dell’insopprimibile libertà della coscienza umana, che diventa controrivoluzione, che diventa vittoria ad un punto dato, dei comuni nemici. Questo è avvenuto sempre nella storia”.
Nella ricostruzione storica del partito socialista, l’anarchismo è stato respinto e l’integralismo è scomparso. E’ rimasto soltanto il nucleo centrale, ovvero il riformismo socialista: questo è il “vero, immortale, invincibile socialismo, che tesse la sua tela ogni giorno, che non fa sperare miracoli e che crea coscienze, Sindacati, Cooperative, conquista leggi sociali, utili al proletariato, sviluppa la cultura popolare, s’impossessa dei Comuni, del Parlamento, e che esso solo, lentamente, crea la maturità della classe, la maturità degli animi e delle cose, prepara lo Stato di domani e gli uomini, capaci di manovrarne il timone”, e pronti per governare la complessa società.
I socialisti riformisti sono stati considerati dalla supponente ideologia comunista sempre social-traditori, ma alla fine sono riusciti ad essere i vincitori. La storia ha dato loro sempre ragione. La battaglia sarà graduale, fitta e di lungo periodo, ma il successo è assicurato ancora volta.
“Capirete allora, intelligenti come siete, che la forza del bolscevismo russo è nel peculiare nazionalismo che vi sta sotto, nazionalismo che del resto avrà una grande influenza nella storia del mondo, come opposizione ai congiurati imperialismi dell’Intesa e dell’America, ma che è pur sempre una forma d’imperialismo […]. E noi non possiamo seguirlo ciecamente, perché diventeremmo per l’appunto lo strumento di un imperialismo eminentemente orientale, in opposizione al ricostituirsi dell’Internazionale più civile e più evoluta di tutti i popoli […]. Tutte queste cose voi capirete fra breve e allora il programma che state elaborando e che, tuttavia, ci vorreste imporre, vi si modificherà fra le mani e non sarà più che il nostro vecchio programma […]. Quando anche voi aveste impiantato il partito comunista e organizzati i Soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocato e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto, a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste nostre diatribe”.
La scissione di Livorno, praticata dai comunisti, è, così, divenuta il punto di partenza per le continue sconfitte non solo dei lavoratori ma anche del socialismo “riformista” e dell’intera società democratica italiana. Questo tanto perché, dividendo e disorientando la classe lavoratrice, è stata aperta la strada al fascismo, quanto perché, durante la dittatura fascista, il riformismo ha subito, incontrando difficoltà ad operare politicamente, ingenti perdite a causa o dell’esilio o della morte di uomini prestigiosi. Dopo la seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo, il socialismo italiano tenta di risorgere e di ricostituirsi, ma, nel 1947, giacché è sul punto di stabilire un patto d’azione con il comunismo, si consuma a Palazzo Barberini, attraverso un suo esponente, Saragat, seguito da un folto gruppo, un’altra scissione, gettando le basi alla socialdemocrazia e regalando, per la seconda volta, sia ai moderati sia ai conservatori, coagulatisi intorno alla democrazia cristiana, fondata da Alcide De Gasperi, la presa del potere su di un piatto d’argento. L’intera sinistra, immatura e massimalista, è, indubbiamente, ancora una volta responsabile della sconfitta dei lavoratori.
Il socialista Pietro Nenni, dopo aver capito l’errore, cerca di restituire autonomia alla politica del socialismo “riformista”, affrancandola dall’ideologia comunista; negli anni sessanta il partito “socialista” si orienta, così, a governare la società italiana con la moderata e conservatrice democrazia cristiana. Un’ennesima scissione, che viene compiuta, nel 1964, da un gruppo di massimalisti, e la politica di Aldo Moro, che, in teoria, accetta l’azione “riformista”, ma, in pratica, da buon conservatore, rende inconsistenti, soprattutto per la pregiudiziale opposizione del partito comunista, le battaglie a favore delle riforme e dei lavoratori, indeboliscono la prospettiva di un centro sinistra “riformista”. Alcuni risultati vengono, tuttavia, in parte raggiunti; infatti, quantunque i nemici della democrazia agitino un colpo di Stato (Piano Solo), vengono, in qualche modo, gettate le basi per il cambiamento in senso “riformista” della società italiana. Nel 1966, all’interno del socialismo italiano, viene, poi, manifestata l’esigenza di superare la scissione operata a Palazzo Barberini, nel 1947.
Il processo d’unificazione è ancora una volta, però, portato avanti in modo erroneo; così, dopo poco tempo, si rimettono in modo meccanismi di suddivisione e si giunge alla rottura definitiva, nel 1969. Agli inizi degli anni settanta con la segreteria di Francesco De Martino, inizia per il partito “socialista” il processo d’unificazione con il PCI, anzi, d’assorbimento nel comunismo. Un gruppo di dirigenti socialisti e riformisti percepisce, però, che, in tal modo, si sarebbe ancora di più spostata in avanti, in Italia, la prospettiva per rendere fattibile e per erigere una società “socialista” e cerca di riorganizzare, operando un taglio netto con il leninismo, il riformismo “socialista”.
I dirigenti del PCI, non essendo riusciti a prendere coscienza che la loro storia è stata un percorso di errori e di orrori, non avrebbero mai potuto guidare con equilibrio la società italiana. Quello dei comunisti è stato un muoversi cieco e disperato. Se ci fosse stata, in Italia, l’egemonia comunista, si sarebbe riprodotta la condizione del noto quadro fiammingo, in cui il cieco si trascinerebbe nel fosso gli altri ciechi che lo avrebbero preferito come guida. Questa cosa è regolarmente accaduta, negli anni novanta, dopo la sparizione del PSI. Sta accadendo, oggi, con il partito democratico. In Weltroni, in Francheschini e in Bersani, intrisi di supponenza catto-comunista, il quadro fiammingo s’incarna perfettamente. Si spera in una loro rivoluzione culturale, consegnando la guida del partito, che è un gigantesco motore di consenso, ma solo per le forza delle strutture collaterali, ad uomini autenticamente riformisti. Il riformismo, come si diceva, è un’arte difficile e non si improvvisa; non potrebbe, pertanto, essere metodologicamente applicato da chi si è costruito un vissuto politico su altre sponde.
Per inciso, è, per le nuove generazioni, un forte disagio aspirare al cambiamento e costruire una sinistra “riformista”, ma non aver punti di riferimento. Anzi, è triste e umiliante essere rappresentati da soggetti politici non all’altezza delle circostanze e dei tempi. Il bi-totalitarismo della cultura italiana, cattolica e comunista, ha, attraverso Tangentopoli, ferito a morte l’anello debole della società politica di allora, ovverosia il socialismo “riformista”. Ha, però, rimosso, attraverso tale atto, la prospettiva dell’intera sinistra e ha bloccato il moto storico verso la libertà e verso il socialismo. E’ stata, così, cancellata la voce del riformismo laico-socialista, che è, secondo me, l’unica prospettiva d’autentica prassi rivoluzionaria. Le rivoluzioni, che si sono realizzate storicamente, hanno, invece, sempre, dopo la fase iniziale, fatto arretrare le società. Napoleone e Stalin insegnano.
I postcomunisti devono ormai superare la concezione gramsciana del partito, perché è d’ostacolo al rinnovamento e al dialogo a sinistra. La supponenza e la ricerca dell’egemonia non aiutano a costruire una forza di sinistra e “riformista”.
I comunisti, attraverso la loro ideologia, hanno concepito ed organizzato un modello di partito burosauro, centralista, pedagogico e totalizzante. E’ difficile, ora, smantellarlo. Tale concezione ha impregnato la maggior parte della cultura politica italiana ed ha, in tempi diversi, plagiato lo stesso partito “socialista” (periodo morandiano e fase demartiniana). Il punto d’incontro di tutte le forze della sinistra deve essere, invece, quello indicato da Turati: la via del socialismo “riformista”. Tale via, per quello che si diceva, ancora oggi, nonostante l’ideologia comunista sia stata storicamente sconfitta ed i comunisti italiani abbiano subito varie metamorfosi (PCI, PDS, DS, PD), rimane un’utopia e sarà tale, finché il riformismo “socialista” non avrà la consapevolezza e la forza di ritornare alla guida della politica italiana, per governare, come ha sempre fatto dalla fine dell’Ottocento alla fine del Novecento, il cambiamento e per contribuire ad edificare una società aperta, “pluralista” e garante dell’equilibrio tra la libertà individuale e la graduale affermazione della giustizia sociale (uguaglianza). I socialisti “riformisti”, che, hanno, dopo “Tangentopoli”, abbandonato l’attività politica, ritornando alle loro tradizionali attività professionali, dovrebbero di nuovo impegnarsi in un partito socialista e riformista, organizzato per scuotere quelli che hanno assunto, negli anni novanta, la posizione di soprammobili negli schieramenti sia di centrodestra sia di centrosinistra. Anche se a costoro, pur non avendo dimostrato di possedere spessore politico, deve essere, tuttavia, riconosciuto un merito, ovvero di non aver permesso che l’ideale del riformismo “socialista” si fosse spento. Ora, devono, però, riprendere il cammino con le proprie gambe e convincersi che il riformismo “socialista” resta l’unico esperimento e percorso per risolvere i problemi della società italiana.
Non trovo che la complessa analisi storica del passato della sinistra debba impedire una presa di coscienza sulla identità del Pd, partito socialista non classista, rispettoso ma non egemone del mercato, che punti agli obiettivi di eguaglianza sempre più cancellati dal capitalismo globale. N.Cacace